giovedì 13 settembre 2007

REDDE RATIONEM

Tra modus operandi e modus vivendi
di Francesco Nucara

Chi non ricorda Eduardo De Filippo ed il suo "Gli esami non finiscono mai"?
Nella vita politica come nella vita in generale, c'è sempre un momento in cui si deve rendere conto del proprio operato. E può essere il redde rationem di un giorno, di un anno, o anche di un'intera vita. Spesso, può diventare difficile sapere a chi chiederlo o meglio da chi dobbiamo pretenderlo, perché la corresponsabilità può portare dritto, quando le cose non vanno bene, all'arrogarsi il diritto di scaricare le proprie responsabilità.
Ma siccome, appunto, gli esami non finiscono mai, siamo costretti, ognuno per la propria parte a reddere continuamente rationem: il coniuge all'altro coniuge, il contribuente al fisco, il deputato ai suoi elettori, il ministro ai cittadini, il leader politico ai suoi sostenitori.
Il nostro, è un paese governato con il metodo dell'alternanza - alternanza finta e malata alla radice - da rappresentanti di centro-destra o di centro-sinistra che continuano sistematicamente a non reddere rationem.
I governi si alternano, ma lo sviluppo non si avvia, perché è sempre colpa di chi li ha preceduti che ha lasciato i conti in dissesto senza reddere rationem .
Ma quando metteremo punto ed a capo?
Siamo vicini ad una "Babele" politica che impedisce una corretta e responsabile comunicazione, mirata ad una intesa civile e progredita, capace finalmente di far luce su chi ha fatto cosa e soprattutto perché.
Tutto ciò riguarda comunque il complesso delle attività umane, ma a noi, oggi ed ora, interessa il modo di essere uomini e politici. E nessuno può negare che le cose debbano essere strettamente connesse.
Non si può essere uomini corretti e cattivi politici. Le due cose non sono alternative.
Più semplicemente, se non si ha voglia o capacità, non si fa esercizio di politica.
Sono gli stessi motivi per cui un politico ambiguo e sleale non può essere un uomo corretto.
E' ancora peggio quando un uomo (e) "politico" inteso come unica entità, approfitta della fiducia talvolta incondizionata, che viene riposta nella sua persona.
Non crediamo di essere ingenui quando affermiamo che agire sospinti dalla forza dei sentimenti (amicizia, passione politica ecc.) non sia mai un errore.
E allora, quando si pensa di non voler dare o di non saper dare conto agli altri, si deve rendere conto - questo sicuro - alla propria coscienza.
Dobbiamo reddere qualcosa a qualcuno?
Pensiamo proprio di si.
Quando il non farlo diventa modus operandi e, anche peggio, vivendi, il senso letterale del reddere, quello obbligatoriamente etico del consegnare il conto, del darne soprattutto ragione, perde, per autentico malcostume, urgenza e motivazione.
E allora ci può, forse, venire in soccorso la filologia latina, che avvicina, nella grammatica storica della lingua, il verbo reddere al verbo redìre il quale suggerisce una salvifica manovra di, caso mai, reductio ad rationem.
Quante di queste manovre dovrebbero essere messe in atto e, soprattutto, quanti sensi di direzione dovrebbero essere invertiti, per poter arrivare ad una opportuna univoca chiarezza?
L'obbligo morale della "riconsegna" dovrebbe essere patrimonio di tutti, di chi ha avuto poco (ma di questo poco sarà sempre riconoscente) e di chi per caso o per fortuna, ha avuto molto e questo molto ha sprecato.
Pensiamo a governi con maggioranza ampia che non hanno però saputo gestire per riformare lo Stato. Ma pensiamo anche ad altro e ad altri.
Allora ci sembra giusto, più che opportuno, parlare di reddere, ma decidiamo finalmente di reddere jus, quella giustizia che sta sempre più nascosta alla nostra vista.
Una vista che a seconda delle circostanze può essere quella di un miope, capace di vedere da vicino ma non da lontano o quella di un presbite, che intercetta le cose lontane ma non "legge" le cose vicine. Ci vuole un oculista per aiutarci a correggere questi difetti. Ce l'abbiamo già: è il nostro partito.
Roma, 6 settembre 2007

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