lunedì 30 luglio 2007

CONFERENZA STAMPA AL SENATO: Costi della politica, le proposte dei republicani per abbatterli

Voce Repubblicana, 27 luglio 2007


Il Partito repubblicano ha presentato al Senato la propria ricetta per la riduzione dei costi della politica, individuando lo strumento degli emendamenti al ddl Lanzillotta sugli enti locali, in esame presso la commissione Affari Costituzionali, come il più efficace per rendere reale e incisiva la razionalizzazione delle spese statali. Un "pacchetto" di 40 proposte di modifica che l'Edera sottoporrà, con spirito "bipartisan" alla maggioranza, attraverso il senatore Antonio Del Pennino, che ha illustrato assieme al segretario del partito Francesco Nucara le linee portanti degli interventi ritenuti indispensabili per i tagli alla spesa pubblica. "Da quando è uscito il libro ‘La casta' - ha affermato Nucara - l'attenzione si è concentrata su aspetti demagogici e marginali come gli stipendi dei parlamentari, che in realtà incidono poco sul complesso delle uscite. Noi siamo favorevoli al principio della riduzione del numero dei parlamentari, ma le vere spese sono altre, e riguardano principalmente una serie di istituzioni locali e organismi territoriali, come le province, che andrebbero abolite, e le comunità montane, che non servono".
Ad illustrare nel dettaglio gli emendamenti al ddl Lanzillotta è stato Del Pennino, il quale ha spiegato che questi si possono idealmente suddividere in quattro tronconi. "Il primo gruppo - ha spiegato - chiede la soppressione delle comunità montane e la costituzione di unioni di comuni omogenei. In Italia esistono sei milioni di ettari non montani che fanno parte delle comunità montane. Chiediamo anche il divieto del cumulo dei gettoni di presenza per i consiglieri comunali e i consiglieri di unioni comunali o di comunità". Il secondo gruppo di emendamenti riguarda invece le aree metropolitane, che devono essere quattro: "Roma, Napoli, Milano e Torino, con l'abolizione della provincia e la suddivisione del circondario in altri comuni". Per il capitolo delle spese, Del Pennino fa presente che nel nostro paese vi sono "621 presidenti di circoscrizione e diecimila consiglieri circoscrizionali, per una spesa annuale pari a 100 milioni di euro". Rispetto al testo del ddl governativo, Del Pennino ribadisce anche un'altra tradizionale impostazione del Pri: "Siamo contrari al diritto di voto agli immigrati per le elezioni circoscrizionali, poiché si tratta di un palese controsenso con l'intenzione di voler ridurre l'importanza di questi consigli".
La terza parte degli emendamenti riguarda le province: "Siamo contro - avverte Del Pennino - la formula usata dal ddl, che parla di ‘ridefinizione' delle province, un termine vago che può significare anche un aumento delle province. Noi vogliamo che sia esplicita la riduzione delle province".
Quarto principio proposto, quello della presenza di una sola figura di manager in burocrazie locali, che invece negli ultimi anni hanno visto un proliferare delle figure dirigenziali. "Rutelli - osserva Nucara - dice che vuole fare un tavolo dei coraggiosi. Questa sarebbe una buona occasione per dimostrare coraggio, ma temiamo che non se ne farà nulla, perché lui e la Lanzillotta sono ostaggio di una maggioranza inefficace e dannosa per il Paese".

LE POSIZIONI REPUBBLICANE SUL DPEF

Quando è a rischio la stessa credibilità dell'Italia


interventi del Sen. Del Pennino

Nel corso della discussione generale svoltasi il 25 luglio, il Sen. Del Pennino ha dichiarato:

Onorevoli Senatori,

La comunità degli economisti ha accolto il DPEF con un misto di scetticismo e dure stroncature. E' un documento profondamente sbagliato: ha detto Alberto Alesina. “Illusoria la promessa” di una manovra indolore ha continuato Luigi Spaventa. “Un atto privo di ogni utilità la cui unica funzione è quella di offrire gli argomenti per i primi dibattiti da spiaggia” – ha rincarato la dose Nicola Rossi –. Potremmo continuare. La cosa è seria perché questa valutazioni critiche si accompagnano ai giudizi negativi delle più autorevoli istituzioni italiane e straniere: dalla Banca d’Italia, alla BCE, dal FMI all’OCSE. La stessa Commissione europea, per bocca del suo rappresentante Almunia, non ha nascosto il suo disappunto. L'esperienza dovrebbe insegnare che quando il coro di critiche è unanime c'è qualcosa di profondamente sbagliato. Che un clima di fiducia è venuto meno. Ed è su questo che dovremmo interrogarci.
Sia nel DPEF, ma soprattutto nella politica finanziaria del Governo, vi sono molti punti oscuri. Alcuni sono evidenti. Altri più nascosti. La somma di queste incongruenze alimenta il clima di sospetto e di sfiducia.
Iniziamo dai difetti più evidenti. In marzo, con la Relazione unificata dell’economia e della finanza pubblica, era stato previsto, per il 2007, un deficit del 2,3 per cento. La previsione era stata comunicata alla Commissione europea che aveva apprezzato.
L’Italia appariva quindi come un grande Paese virtuoso che, sfruttando il lascito positivo del precedente Governo, continuava nella strada del risanamento.
Ma subito dopo la delusione.
Con l’approvazione del D.L. n.81 del 2007 – vale a dire con la distribuzione del cosiddetto “tesoretto” la cifra saliva al 2,5 per cento, essendo il decreto coperto a deficit.
Da qui le critiche della Commissione.
La previsione di un deficit per il 2007 pari al 2,5 per cento è in parte frutto di un artificio. Esso sconta spese di competenza dell’anno in corso, rinviate al 2008. Si tratta, in particolare di 1,43 miliardi di euro – pari allo 0,1 del PIL – corrispondenti ai contratti del pubblico impiego, statali esclusi, ed ai maggiori oneri relativi al personale della scuola. Se queste poste fossero correttamente contabilizzate, il deficit effettivo risulterebbe pari al 2,6 per cento: 0,3 punti di PIL in più rispetto a quanto comunicato a Bruxelles ed al lascito del Governo Berlusconi .
Non voglio riaprire la questione di chi sia stato il merito del risanamento. Mi limito a ricordare che nel DPEF del 2001, Vincenzo Visco, allora Ministro del tesoro, indicò nello 0,8 per cento del PIL il deficit di quell’anno. Alcuni non ci credettero ed avanzarono l’ipotesi di un deficit sommerso molto più consistente. L’ISTAT, qualche anno dopo, ne certificò la dimensione indicando un valore pari al 3,1 per cento. Quindi fuori dai parametri di Maastricht. Forse memore di quell’esperienza, l’attuale Ministro del Tesoro ha cercato di giocare d’anticipo, indicando nello scorso DPEF un deficit per il 2006, pari al 4 per cento. Che nel Programma di stabilità, del dicembre 2006, veniva portato al 4,8 per cento.
A questo risultato si perveniva con una serie di manipolazioni che, per fortuna, i mercati finanziari hanno valutato con un pizzico di buon senso. Se così non fosse stato, il rating nei confronti del nostro Paese sarebbe precipitato, con esiti disastrosi.
Il deficit di base fu ricalcolato, per tener conto di quelle maggiori entrate da cui sarebbe nato il “tesoretto”, riducendo nello spazio di pochi mesi , da luglio a dicembre, il deficit dal 4 al 2,7 per cento.
Naturalmente queste oscillazioni previsionali non sono senza conseguenza per la credibilità del Paese. E ciò si sta ripetendo .
Lo confermano le indicazioni del Ministro dell’economia quando elenca le spese già previste per la prossima legge finanziaria ed, almeno per il momento, senza indicazione di copertura. Spese che saranno ancora maggiori , considerando l'accordo raggiunto sulle pensioni.
Siamo stati e siamo contrari a ridurre il tempo della vita lavorativa.
Siamo convinti che il sindacato non abbia tutelato i propri iscritti. Lavoreranno meno ma con una pensione destinata a decrescere fortemente in termini reali. Le pensioni minori saranno pari al 70 per cento della retribuzione media degli ultimi 5 anni o 10 anni, a seconda che si applichi il metodo distributivo o contributivo.
Pure ipotizzando un tasso di inflazione del 2 per cento, il loro valore reale, nell'arco di vent'anni , sarà poco superiore al 45 per cento, dell' ultima retribuzione.
Le considerazioni appena esposte spiegano il voto contrario del Partito repubblicano. Di questo Governo non apprezziamo la linea di politica economica ed il continuo cedimento alle pressioni della sinistra massimalista. In teoria approviamo la proposta del Ministro dell’economia che indica in 700 miliardi di euro (pari al 43,5 per cento del PIL) la linea invalicabile della spesa corrente al netto degli interessi.
Ma abbiamo il timore che su questa linea Egli non potrà resistere, anche se saremmo lieti di essere smentiti.



Successivamente il Sen. Del Pennino, insieme al Sen. Malan (FI), ha presentato un emendamento alla vigilia del voto sul Dpef atto "a garantire - ritenuto che l'efficacia delle politiche di bilancio, come dimostrato dall'esperienza internazionale e come sostenuto dallo stesso Governo, è assai maggiore ove si riesca ad affiancare agli impegni sui saldi di bilancio l'introduzione di vincoli sul livello massimo della spesa corrente primaria - che la prossima manovra finanziaria sia articolata in modo da assicurare che il livello dela spesa corrente primaria del conto consolidato delle pubbliche amministrazioni non sia superiore, rispettivamente, a 635.546 milioni di euro per il 2008, a 648.587 milioni di euro per il 2011, come indicato dalla tavola del conto della pubblica amministrazione a legislazione vigente del Dpef stesso".
L'emenamento proposto è attuativo delle indicazioni fornite dal governo. Il Dpef, infatti, a pag 50 indica espressamente l'opportunità che il Parlamento, in sede di risuluzione di approvazione del Dpef, indichi " un valore della spesa primaria... strategico per il Governo in sede di definizione della legge finanziaria e per il Parlamento nella fase emendativa". Il governo, a tale proposito, segnala anche come un'indicazione in tal senso sarebbe pienamente coerente con le previsioni della legge di contabilità dello Stato n. 468 del 1978.
L'emendamento proposto vincola il livello massimo della spesa primaria corrente ai valori del conto consolidato delle P.A., a legislazione vigente, ovvero dei valori della spesa che si registrerebbero assenza di interventi modificativi della spesa in senso migliorativo o peggiorativo. A tale proposito si segnala che nello stesso Dpef (ala tabella III 1.3 di pagina 51) il Governo ha indicato una cifra dell'ordine di 21 miliardi di euro circa per il 2008 non inclusi nei valori tendenziali che tuttavia corrispondono a impegni già sottoscritti, a prassi consolidate e a impegni programmatici che dovranno essere inseriti nella prossima manovra finanziaria
Ove l'emendamento venisse approvato, la quota di maggiori oneri derivante dalla spesa corrente dovrebbe essere coperta attraverso riduzioni di altre spese di natura corrente. Quando invece agli oneri per spese in conto capitale o per riduzione di entrate, essi potrebbero essere coperti anche mediante misure di incremento delle entrate o di riduzione di altre spese in conto capitale.
DICHIARAZIONE DI VOTO SUL D.P.E.F.
GIOVEDÌ 26 LUGLIO 2007
(Antimeridiana)
Del Pennino ha affermato: Signor Presidente, un'indicazione è fornita dallo stesso Governo nel DPEF quando indica espressamente l'opportunità che il Parlamento, in sede di risoluzione di approvazione del DPEF, indichi un valore della spesa primaria strategico per il Governo in sede di definizione della legge finanziaria. Quindi è il Governo che aveva chiesto di dare questa indicazione nel Documento.

La dichiarazione che è stata fatta dal rappresentante del Governo, che il problema sarà affrontato successivamente, è contraddittoria con quanto lo stesso Governo aveva affermato. Inoltre, essa in realtà nasconde il conflitto interno alla maggioranza fra chi (come il Ministro dell'economia, come i colleghi Dini e D'Amico con il loro emendamento analogo al nostro ) ritiene che una precisa cifra non possa essere superata per quanto riguarda il livello della spesa corrente primaria e quanti invece non ritengono che questo obiettivo sia da perseguire in via prioritaria da parte del Governo e del Parlamento.
Per questo credo che il voto su questo emendamento riveli una contraddizione profonda se la maggioranza intende respingerlo.

giovedì 26 luglio 2007

Dare credito ad Hamas significa indebolire Israele

Dichiarazione di voto sulle missioni all'estero, Senato, 24 luglio 2007.

di Antonio Del Pennino

Signor Presidente, desidero anch'io preliminarmente, come ha fatto il collega Buttiglione, esprimere a nome dei senatori del Gruppo della Democrazia Cristiana per le autonomie - Partito Repubblicano Italiano - Movimento per l'Autonomia la solidarietà al ministro D'Alema, come agli altri colleghi che ne sono stati oggetto, per l'attacco mediatico - giudiziario cui abbiamo assistito in questi giorni, attacco che ripropone il delicato problema di un corretto rapporto tra organi giudiziari e rappresentanze istituzionali e che ogni giorno di più è evidente nel nostro Paese.
Detto questo, i senatori del nostro Gruppo non voteranno per la proposta di risoluzione di maggioranza e voteranno invece a favore delle diverse risoluzioni presentate dai senatori Schifani, Pianetta, Mantica, Marini e Calderoli. Non possiamo votare la proposta di risoluzione che approva le comunicazioni del Governo non per un preconcetto di opposizione ma perché le dichiarazioni del Ministro degli esteri, pur contenendo considerazioni sulla politica europea e sull'impegno italiano per l'abolizione della pena di morte su cui conveniamo e su cui vasto è il consenso di tutte le forze politiche, appaiono, per altri versi, assai contraddittorie.
In particolare pur riconoscendo, a proposito della missione UNIFIL, il permanere di infiltrazioni di armi dalla Siria al Libano e il fatto che il controllo dei confini libanesi è oggi insufficiente, ci è apparso che, sul punto, egli sottovaluti i pericoli e la gravità della situazione. Basta ricordare le dichiarazioni al quotidiano in lingua araba "Hayat" dello sceicco Mohammed Yazbek, membro dell'ufficio politico di Hezbollah, che ha affermato: "Rispetto alla guerra dello scorso anno le nostre capacità sono quasi raddoppiate, siamo pronti ad ogni eventualità. Se il nemico si è preparato ed è pronto, noi pure siamo pronti a impartirgli una lezione che non dimenticherà".
La dichiarazione, arrivata dopo l'incontro a Damasco tra il segretario generale degli Hezbollah, Nasrallah, con il presidente Ahmadinejad e con quello siriano Bashar al-Assad, è resa più significativa dal ruolo che lo sceicco Yazbek ricopre, cioè quello di rappresentante ufficiale in Libano della guida suprema iraniana, l'ayatollah Khamenei.
Ci saremmo quindi aspettati dal Ministro alcune precise proposte da avanzare in sede di Nazioni Unite sul come rendere più incisiva la missione UNIFIL e non solo l'affermazione che, secondo il capo del Governo libanese, è necessario estenderla sino al 2008.
Del pari, pur ribadendo l'importanza della Conferenza tenuta a Roma sull'Afghanistan, ella, onorevole Ministro, ha piuttosto posto l'enfasi sulla necessità di un confronto internazionale, promosso dall'Italia sul valore della missione afgana. Forse perché era condizionato dall'appello firmato da 41 senatori della sua maggioranza proprio questa mattina, che hanno affermato: "attendiamo ancora la svolta in Afghanistan. La coalizione internazionale sembrerebbe aver rinunciato a praticare una netta discontinuità rispetto al passato. Per queste ragioni torniamo oggi a chiedere al Governo italiano di impegnarsi per un'effettiva inversione di rotta".
Proseguivano poi in questo appello, dichiarando che "la soluzione diplomatica dovrà essere perseguita con massima determinazione attraverso una conferenza internazionale, coinvolgendo l'Europa, i Paesi presenti con propri contingenti militari e i Paesi confinanti, nonché tutte le componenti del popolo afgano, chi accetta la presenza delle truppe internazionali e chi la osteggia". Quindi, secondo questi colleghi, anche i talebani.
Ecco perciò, su questo punto delicato, se il Ministro avesse voluto precisare una posizione chiara, evidentemente avrebbe determinato non pochi contrasti nella maggioranza.
Per quanto riguarda il problema dei rapporti israeliano-palestinesi, ci è sembrato che ella abbia voluto oggi correggere le sue precedenti dichiarazioni di San Miniato, ribadendo il ruolo di Abu Mazen e la sua personale amicizia con lui. Tuttavia, francamente, questo non ci appare ancora sufficiente. Hamas è un'organizzazione che ha un programma di guerra, di terrorismo e di distruzione di Israele. Non riteniamo possa mai essere coinvolta in un processo di pace, di costruzione dello Stato palestinese, se non ripudia il terrorismo come strumento di lotta e non accetta di riconoscere il diritto all'esistenza di Israele.
Ogni pur cauta apertura di credito verso questa organizzazione, il permetterle di ritenere che vi possa essere nei suoi confronti un ammorbidimento della comunità internazionale, senza che essa modifichi le sue posizioni, è qualcosa che non rafforza Abu Mazen e non avvicina il processo di pace in quella martoriata area.
Negli scorsi giorni - credo l'abbia ribadito anche poc'anzi in Aula - un autorevole collega della sua parte politica, il senatore Furio Colombo, ha scritto su "l'Unità" che "è chiaro a tutti ormai che senza Israele non ci sarebbe mai stata neppure la rivendicazione di uno Stato palestinese, dal momento che Giordania ed Egitto si erano già attribuite parte del territorio che avrebbe dovuto diventare Palestina". E proseguiva, affermando che "senza la permanenza stabile e sicura di Israele e del suo diritto alla pace non ci sarà mai alcuna patria dei palestinesi, ma soltanto guerriglia senza fine".
Sono affermazioni che condividiamo totalmente. La difesa del diritto di Israele ad uno Stato sicuro, secondo il Gruppo dei senatori della Democrazia cristiana, del Partito repubblicano, del Movimento per le autonomie, deve rimanere il punto centrale di ogni politica italiana nel Medioriente.

martedì 24 luglio 2007

La legge elettorale non garantisce maturità politica

Il bipolarismo viziato/In Italia nascono coalizioni eterogenee incapaci di reale governabilità

Intervento in Commissione Affari Costituzionali del Senato, 24 luglio 2007.

di Antonio Del Pennino

Mi dispiace non unirmi al coro pressoché unanime dei colleghi che hanno esaltato il valore del bipolarismo e del sistema maggioritario come strumento per realizzare il bipolarismo. Si afferma che nella cosiddetta seconda Repubblica, quella che stiamo vivendo, si è realizzato l'obiettivo della alternanza come effetto della legge elettorale maggioritaria. Obiettivo che nella vituperata prima Repubblica non era stato possibile raggiungere per via del sistema proporzionale. Mi sembra una assoluta banalità.
Se nella prima Repubblica non è stato possibile realizzare una piena democrazia dell'alternanza e siamo stati costretti ad un bipartitismo imperfetto, per usare l'espressione di Giorgio Galli, questo non è stato frutto della legge elettorale, ma della condizione internazionale, della divisione del mondo in due blocchi e dell' egemonia che un PCI legato all'URSS, aveva sulla sinistra italiana.
E non è un caso che solo dopo l'89, la caduta del muro di Berlino, la fine della contrapposizione tra Est e Ovest, sia diventata realistica l'ipotesi di un alternanza perché, anche grazie alla trasformazione del PCI in PDS, si rendeva possibile un ruolo di governo della sinistra. Il passaggio dal proporzionale al maggioritario non fu determinante. La valutazione quindi sul sistema elettorale non può rapportarsi al fatto che esso sia in grado o meno di realizzare una democrazia dell'alternanza, quanto piuttosto alla sua capacità di garantire sia una reale governabilità, sia una possibilità di espressione delle diverse realtà culturali e ideali presenti nel paese.
Da questo punto di vista il nostro sistema elettorale ha realizzato un bipolarismo che, per dirla con il prof. Sartori, "non è immaturo né maturo, è semplicemente sbagliato". Perché è un bipolarismo viziato che costringe all'inseguimento del voto marginale, e quindi a coalizioni eterogenee che poi non sono in grado di assicurare una reale governabilità ma dànno vita a maggioranze contraddittorie, rissose, incapaci di una effettiva guida dei processi economici e sociali.
Nei paesi europei in cui si è realizzato un reale sistema bipolare, questo è avvenuto indipendentemente dalla legge elettorale, perché storicamente sono cresciute forze politiche omogenee con vocazione maggioritaria che hanno saputo rendersi interpreti delle esigenze prevalenti nella società e dare ad esse una organica risposta.
Ma questo è stato frutto di un processo culturale e politico che la legge elettorale ha accompagnato, non imposto. Le leggi elettorali condizionano, ma sono anche condizionate dai processi politici. Se si pensa che la legge elettorale di per sé possa condizionare processi politici che non sono ancora maturati, si commette un errore di prospettiva.
Per questo giudico illusoria l'ipotesi referendaria perché essa costringerebbe, per vincere le elezioni, ad un'aggregazione forzata di soggetti non omogenei, tra i quali, all'indomani del voto, si riaprirebbe un conflitto che renderebbe difficile ogni azione di governo. Ma per gli stessi motivi, proprio perché non esistono in Italia, per usare l'espressione di Sartori, le condizioni di "un bipolarismo rigido", ma piuttosto vi è l'esigenza di un "bipolarismo flessibile" (e quanto Sarkozy sta realizzando in Francia dovrebbe insegnarci qualcosa) l'ipotesi che ci ha presentato il Presidente Bianco non mi convince.
Credo piuttosto che per la realizzazione di un "bipolarismo flessibile" sia meglio una legge elettorale che riprenda il cosiddetto modello tedesco. E lo dico sapendo che questa soluzione inevitabilmente comporterebbe un'alta soglia di sbarramento che penalizzerebbe la forza politica che rappresento. Ma lo affermo perché guardo non a interessi di bottega, ma ad un'esigenza generale di governabilità del paese.
Ma se contro queste mie considerazioni si formerà, come temo, una convergenza sull'ipotesi di una soluzione che preveda un premio di maggioranza per la coalizione vincente, allora è necessario adottare la soluzione proposta nel DDL del Sen. Cutrufo. Cioè una soluzione che, proprio perché prevede il premio di maggioranza non stabilisce alcuna forma ,neppure minima, di sbarramento. E questo non solo per consentire un diritto di tribuna alle diverse espressioni politiche e culturali presenti nel paese, ma anche perché, una volta garantita la cosiddetta governabilità col premio di maggioranza, assegnato anche alle coalizioni che non raggiungono il 51%, non ha senso imporre a chi del premio di maggioranza non vuole usufruire, ma vuole mantenere una propria individualità, lo scotto dell'esclusione dalla rappresentanza parlamentare.
Mi sembra a questo proposito assai pertinente l'osservazione di Giuseppe De Rita che proprio la scorsa settimana ha sottolineato come "non si sia in grado di far uscire la politica italiana e la sua classe dirigente dall'attuale stato di confusione se non si prende coscienza che siamo di fronte al tramonto di un ciclo di cultura e impostazione politica. Il declino del ciclo che ha privilegiato il decisionismo, la concentrazione e la verticalizzazione del potere sacrificando ogni meccanismo e sede di rappresentanza".
D'altro canto è stato proprio il Presidente della Repubblica a ricordarci che non esiste in nessun altro paese una legislazione elettorale che preveda contemporaneamente premio di maggioranza e soglia di sbarramento.
Detto questo sulla legge elettorale, desidero aggiungere una considerazione relativa al rapporto tra elettori ed eletti, riprendendo un'indicazione già data dal collega Nania.
E' evidente a tutti il distacco tra elettori ed eletti che l'attuale normativa determina, prevedendo forme di designazione dei parlamentari da parte dei vertici dei partiti senza il correttivo delle preferenze. Non ripropongo il ritorno al sistema delle preferenze, ma ritengo che per superare l'attuale condizione sia necessaria una regolamentazione giuridica dei partiti che ne garantisca la democrazia interna e, come proponeva appunto Nania, un sistema di primarie vere, regolamentate per legge (non quelle dei gazebo) per la selezione dei candidati.
Ma questo presuppone, Signor Presidente, che la Commissione parallelamente alla discussione sulla legge elettorale affronti anche i disegni di legge sull'attuazione dell'art. 49 della Costituzione che avevamo iniziato e poi inopinatamente abbandonato.
Se le due cose non andranno avanti di pari passo, anche con sedute straordinarie della Commissione, non credo che saremo in grado di dare risposta ai problemi di un corretto assetto del nostro sistema istituzionale.

AL SENATO ANNULLATA LA VOLONTA' POPOLARE

di Roberto Arosio *


Definire un anomalia la quotidiana querelle alla quale assistiamo a Palazzo Madama un giorno si e l’altro pure e’ puramente un esercizio di forma.Sin dall’inizio di questa travagliata legislatura si sapeva che il vero scoglio sul quale il Prof. Prodi avrebbe sbattuto il muso era l’esigua, se non inesistente, maggioranza in Senato. Ma seppur in profonda difficoltà il Governo regge e si aggrappa con le unghie e coi denti a coloro che siedono sugli scranni senatoriali, non per mandato elettivo ma per diritto di rappresentanza, acquisito per meriti che esulano da quello che in una democrazia compiuta spetta al popolo sovrano.La questio verte sul ruolo dei Senatori a vita, incarico di per se obsoleto e inutile, retaggio di una politica che con l’avvento del maggioritario ha perso di valore sia istituzionale sia sul piano della rappresentatività e ancor più lascia perplessi la posizione politica dei Senatori stessi.Nell’ ultimo periodo abbiamo assistito a due bocciature del Governo, prima su temi di politica estera e ultimamente sulla questione Giustizia, ed invece di riflettere sulle motivazioni che hanno portato a questo, il Presidente del Consiglio continua a chiedere il soccorso degli illustri esponenti.Onestamente, ritengo che quando si tratta di argomenti inerenti a profonde riforme strutturali, alle necessarie priorità di un paese si deve avere la capacità di confermare le posizioni espresse dall’esecutivo con veri e reali numeri, sia alla Camera, e purtroppo per Prodi, anche al Senato.Non vorrei che si pensasse che tutto questo sia illegittimo, anzi dal punto di vista Costituzionale non fa una piega, in discussione invece è la parte politica e morale, la quale al contrario qualche crepa la evidenzia, dato che inevitabilmente si va a ledere la volontà popolare. E ritengo che questo vulnus non possa essere lasciato in secondo piano, anche perché pone una seria riflessione sulle regole sulla quale si posa la democrazia.
*Roberto Arosio
Segretario Esecurivo Regionale PRI Lombardia

LE MILLE ED UNA...SYDNEY

di Roberto Arosio*


La cosa che lascia perplessi è che qualcuno ha gridato allo scandalo. Ancor di più sbigottiti si rimane nel momento in cui, passati pochi giorni dalla rivelazione inoppugnabile e comprovata del pasticcio australiano, delle schede elettorali compilate in garage, nessuno sembra ricordarsene più.Che la legge "459 recante disciplina per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero", non disciplinasse nulla è cosa nota, ma che la stessa legge potesse essere aggirata in maniera così grossolana francamente merita una riflessione più approfondita.Si è parlato del candidato Paolo Rajo dell’UDEUR, trovatosi a vis-a-vis con l’illecito e che ha denunciato l’accaduto, ma per un caso scoperto agli antipodi di Roma, quanti altri garage hanno "lavorato" nel Nord e Centro America, nel America Meridionale e perfino in Europa?Arrivano voci preoccupanti e purtroppo poco ascoltate dal più vicino Canada, dove il segretario politico dell’UDC, Vittorio Coco, parla espressamente di "scuole nate per insegnare a votare l’Unione" e ancora dichiarare " corrieri adibiti al trasporto di plichi contenenti schede elettorali" ed inoltre " gestori di patronati, candidati per l’Unione, colti con le mani nel sacco nell’atto di far votare schede elettorali"Sarebbe poco serio pensare che tale atto delittuoso sia monopolio della Sinistra – anche se in queste cose ha sempre dimostrato una predisposizione più viva – il vero problema sta a monte. La legge così concepita nasce con troppe zone d’ombra, il voto per corrispondenza si presta a troppi "loop holes" e permette ai furbetti di turno di manipolare l’elettore che, da una parte pensa in buona fede di aiutare il paese natio, ma dall’altra non avendone il polso si presta, sua insaputa, a questi giochetti.Ma veniamo in dettaglio alle zone oscure della succitata Legge, denunciate dagli stessi candidati nei collegi esteri.Le schede elettorali, i certificati elettorali, e le stesse buste vengono stampate in loco, non in Italia, sembra per mancanza di tempo materiale. Quindi viene facile chiedersi: chi sceglie la tipografia? Chi controlla che non vengano stampate quantità maggiori di schede? Le schede elettorali sono spedite in alcuni casi a cura delle stesse tipografie agli aventi diritto al voto. A Sydney, prove alla mano, moltissime schede sono state spedite almeno con tre giorni di ritardo, rispetto a quanto stabilito dalla legge elettorale. Lo stesso elettore doveva rispedire le schede elettorali con busta preaffrancata al Consolato che raccolte le doveva poi inviare a Roma. Il sistema di votazione è così convulso da mettere in difficoltà anche quelli più preparati e avvezzi già al voto, immaginiamo per quelle persone che hanno votato per l'Italia per la prima volta e per giunta con questo sistema assurdo (questo per l'80% dei votanti all'estero).Bene, penso che dati per un analisi più precisa di ciò che è accaduto, e quello che sicuramente accadrà in futuro ce ne siano in abbondanza, ora non resta che rimettere mano alla Legge 459, legge che i repubblicani non approvarono, di cui proposero di sospendere l’applicazione proprio perché i rischi che ho precedentemente evidenziato furono già affrontati dalla Commissione per gli Affari Costituzionali della passata legislatura, e fu solo per l’impuntatura dell’On. Tremaglia che indusse la maggioranza di allora a respingere l’emendamento sospensivo e realizzare il pasticcio di fronte al quale ci troviamo oggi.Ancora una volta, visti i risultati, i nostri alleati dovrebbero pentirsi di non aver ascoltato i consigli del PRI. E’ il momento giusto per far diventare la Legge 459 davvero una "disciplina" così come indica il testo stesso. A meno che non si voglia lasciare uno strumento pericoloso nelle mani dei "furbetti" di turno.*Roberto ArosioSegretario Esecutivo Regionale PRI Lombardia

Garantire l'autonomia dei singoli magistrati senza corporazioni

di Antonio Del Pennino


Il voto con cui il Senato ha approvato il disegno di legge sulla riforma dell'ordinamento giudiziario esige alcune riflessioni.Il testo approvato dalla Commissione Giustizia e trasmesso all'aula presentava luci ed ombre. Distingueva, infatti, tra funzioni giudicanti e funzioni requirenti, abolendo l'affermazione contenuta nell'originario disegno di legge governativo che parlava di "magistratura ordinaria unica nel concorso di ammissione, nel tirocinio e nel ruolo di anzianità", stabilendo, invece, che, "i magistrati ordinari sono distinti secondo le funzioni esercitate".Prevedeva inoltre che in caso di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti, il magistrato non potesse rimanere nello stesso distretto o all'interno di altri distretti della stessa regione.Era una formulazione insufficiente perché si consentiva il passaggio da una funzione all'altra per ben quattro volte nell'arco dell'intera carriera. E su questo punto insieme ad altri colleghi della CdL avevamo presentato degli emendamenti tendenti a ridurre ad uno, al massimo due, le possibilità di passaggio.Consentire quattro volte la possibilità di passaggio da una all'altra funzione, malgrado i vincoli prima ricordati, infatti, vanifica ogni reale distinzione delle funzioni e pregiudica la possibilità di distinguere il ruolo del Pubblico Ministero da quello del Giudice, come invece prevede l'art.111 della Costituzione che parla di un "giudice terzo ed imparziale".Ma non solo questa correzione è stata respinta dalla maggioranza.Si è poi introdotta, con un emendamento del Sen. Brutti, fatto proprio dal governo, sotto la pressione dell'A.N.M., un'ulteriore correzione al testo della Commissione che stabilisce la possibilità di deroga al divieto di passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti all'interno dello stesso distretto o all'interno di altri distretti della stessa regione, nel caso in cui il magistrato, che chiede il passaggio alle funzioni requirenti, abbia svolto funzioni esclusivamente civili o del lavoro o nel caso in cui il magistrato che ha esercitato funzioni requirenti chieda di essere assegnato a funzioni civili o del lavoro.Si è cioè introdotta una norma che non solo vanifica l'originale divieto contenuto nel testo della Commissione (anche perché, ad esempio, nel caso di giudizi in materia fallimentare o di lavoro possono esserci risvolti penali), ma che rappresenta anche, una schizofrenia legislativa dato che inserisce una distinzione tra funzioni civili e funzioni penali che il disegno di legge, nell'indicazione delle funzioni, non prevede.Va in proposito sottolineato che il governo e la sua maggioranza si sono mossi con la preoccupazione di evitare lo scontro con l'A.N.M. e l'introduzione della modifica prima ricordata ha risposto all'esigenza di venire incontro alle richieste dell'A.N.M. e dei suoi portavoce in seno al Parlamento: il Ministro Di Pietro e l'Italia dei Valori, che minacciavano un voto contrario.Se a questo si aggiunge il fatto che il disegno di legge Mastella attribuisce un diritto assoluto al C.S.M. sulle carriere e la destinazione dei magistrati, costringendo il singolo a sottostare alle logiche correntizie, ci sembra che un'ulteriore considerazione vada fatta.L'obiettivo di garantire un ordinamento giudiziario autonomo, ma non separato e contrapposto agli altri poteri dello Stato, (che fu già posto, soprattutto dalla sinistra nel dibattito alla Costituente) non può essere risolto affrontando il problema solo attraverso interventi di legislazione ordinaria.Il nodo di fondo – che è responsabilità del centro-destra non aver affrontato nella passata legislatura, e del centro-sinistra per non volerlo affrontare in questa – è quello della composizione del C.S.M.Che non può essere un organo "castale" in cui sono prevalenti le espressioni delle diverse componenti della Magistratura che decidono in base a scelte "lottizzate".Occorre sul punto una revisione costituzionale. Quale quella, proposta originariamente dal Sen. Maccanico e ripresa in un disegno di legge che presentai nella passata legislatura insieme al Sen. Compagna, che prevede un C.S.M. modellato sullo schema della Corte Costituzionale, con 1/3 dei membri eletti dai magistrati, 1/3 eletti dal Parlamento e 1/3 nominati dal Capo dello Stato, come supremo garante, anche in funzione del suo ruolo di Presidente del C.S.M.E' solo su questa strada che si possono evitare chiusure corporative, meglio garantire l'autonomia dei singoli magistrati ed accrescere il prestigio dell'ordine giudiziario.
Roma, 16 luglio 2007

UNIRE IL FEDERALISMO FISCALE E LA LOTTA AGLI SPRECHI

Riordinamento degli Enti Locali. Manca un organico disegno di semplificazione dei poteri.

Intervento in Commissione Affari Costituzionali del Senato, 12 luglio 2007.

di Antonio Del Pennino


Preliminarmente desidero rilevare, come hanno fatto altri colleghi, l'inopportunità di affidare al Legislatore Delegato l'intera materia relativa al riordinamento degli enti locali.
In particolare addirittura alcuni dubbi di costituzionalità potrebbero sorgere per il fatto che la normativa elettorale sia oggetto di delegazione legislativa.
Ritengo che comunque vada ridotto il numero delle deleghe e disciplinata col procedimento legislativo ordinario una serie di materie.
D'altro canto molte delle disposizioni contenute nel testo del disegno di legge presentano imprecisioni, incongruenze e contraddizioni che sono state ben evidenziate nelle schede di lettura del Servizio Studi.
E che, come sottolinea lo stesso documento del Servizio Studi, sono destinate , se non corrette, ad aprire problemi interpretativi di non poco momento. Anche se so che molte di queste incongruenze dipendono dalla confusa e improvvida riforma del Titolo V
Per altro il disegno di legge lascia aperti alcuni problemi come quello della ridefinizione dei rapporti e delle competenze fra Capo dell'Amministrazione, Giunta, Consiglio e dirigenti, ridefinzione necessaria per correggere gli squilibri oggi esistenti. Così come va specificato meglio cosa si intende per funzione apicale evitando la confusione tra Segretari e Direttori generali ( per cui appare generica la previsione contenuta all'art. 2 comma 4 lettera cc).
Ma su questi punti potremo tornare in sede di discussione degli emendamenti.
Quelli che mi preme sottolineare ora sono due problemi più squisitamente politici che il disegno di legge non risolve o forse addirittura complica. Al di là delle affermazioni di puro principio, manca un organico disegno di semplificazione del nostro sistema di poteri locali.
L'art.1 lettera d) stabilisce che i decreti delegati si debbano ispirare al principio della :" obbligatorietà dell'esercizio associato di determinate funzioni amministrative da parte degli enti di minori dimensioni demografiche".
Il successivo art.2 comma 3, lettera b) , affida ai decreti delegati il compito di :" prevedere che determinate funzioni fondamentali, da individuarsi in sede di decreto delegato possano essere esercitate in forma associata". Quindi l’obbligo diventa facoltà.
L'art. 2 comma 4, lettera n) , poi, stabilisce che occorre" prevedere che le forme associative tra gli enti locali assicurino una semplificazione strutturale ed organizzativa con organi composti esclusivamente da amministratori locali".
Ma lo stesso articolo 2 al 3° comma , lettera i) afferma che i decreti delegati dovranno indicare i principi sulle forme associative e per la razionalizzazione, la semplificazione e il contenimento dei costi per l'esercizio associato delle funzioni da parte dei comuni, ispirati al criterio dell'unificazione per i livelli dimensionali ottimali attraverso l'eliminazione di sovrapposizione di ruoli e di attività e temendo conto delle forme associative esistenti, in particolare delle unioni di comuni e delle peculiarità dei territori montani ai sensi dell'articolo 44, secondo comma della Costituzione. Salva, quindi, la specificità delle comunità montane.
Il tutto in un contesto in cui si valorizza il ruolo della Provincia e si considera (art. 2, comma 3, lettera d) che tra le funzioni fondamentali della Province vi siano quelle che le connotano come enti di governo di area vasta, nonché, si prevede (art.2 comma 3, lettera c) che l'esercizio delle funzioni fondamentali possa essere svolto unitariamente sulla base di accordi tra Comuni e Province.
Il mio partito è sempre stato per l'abolizione delle Province e per esaltare forme intermedie di collaborazione tra i Comuni come unica dimensione sub-regionale, e non sconfesso tale impostazione.
Ma so che al di là di singole adesioni, questa tesi è minoritaria fra le forze politiche e comunque il problema andrebbe affrontato con una modifica costituzionale.
Per questo, affrontando oggi la materia degli enti locali a costituzione invariata e arricchendo di nuove funzioni le province, credo si renda indispensabile una drastica semplificazione degli organismi - sub - provinciali. A cominciare dalle Comunità Montane.
Quando esse furono istituite nel 71' erano tempi di ristrettissime deleghe alla Province ed era aperto il dibattito sull'abolizione delle province stesse.
Oggi con le deleghe sulla difesa del suolo, sulla forestazione, sui parchi e le riserve naturali e con le nuove funzioni che verranno ad esser assegnate, le Province hanno ridotto il minimo il ruolo delle Comunità Montane. La loro sopravvivenza, in una fase in cui è aperta una seria riflessione sui costi della politica, appare davvero ultronea.
Basti pensare al fatto che siamo oggi in presenza di 356 Comunità Montane, diverse delle quali riguardano territori parzialmente ,o per nulla, montani ( la superficie coperta dalle Comunità Montane è di ha 16.371.885, la superficie montana totale del paese è ha 10.611.208), con 4.201 comuni e 10.822.609 abitanti. Che hanno spese correnti per 852.131,000 di euro (al 2003) a fronte di spese dichiarate in conto capitale pari a 1.167.000.000 di euro ( ma 111.615.000 di euro delle spese in conto capitale sono indicati per Amministrazione generale, gestione e controllo) . E se poi guardiamo alle tabelle relative alle spese per investimenti divise per interventi si accerta che per l'acquisizione di beni immobili, la spesa è stata di 353.665.000 di euro su un totale di 862.246.000 di euro. Che hanno oltre 7.500 dipendenti (il 15% di quelle delle Province) e che le spese per gli emolumenti dei presidenti ammontano a 13.680.000 euro, mentre mancano i dati dei gettoni per i consiglieri (che sono 12.820).
Se a questo si aggiunge il fatto che oggi esistono 271 Unioni di Comuni, che associano 1.217 Comuni per una popolazione totale di 3.812.194 abitanti, emerge con chiarezza che le generiche disposizioni del disegno di legge governativo non sono in grado di risolvere il problema della semplificazione del nostro sistema periferico e la conseguente riduzione dei costi della politica.
Occorre abolire le Comunità Montane, e su questo mi riservo di presentare un emendamento soppressivo degli artt.27,28,29, del T.U. sugli enti locali e conseguentemente del 5° comma dell'art.4 della legge 5 giugno 2003 n°131.
Ma occorre definire una più rigorosa disciplina anche per le Unioni Comunali, stabilendo che le stesse debbano essere uniche e polifunzionali per ogni area territoriale.
E occorrerebbe altresì prevedere, fermo il principio che degli organi delle forme associative di Comuni devono far parte solo amministratori locali ( lettera n, comma 4 art.2) , che non siano cumulabili non solo le indennità di funzione, ma anche i gettoni di presenza per chi ricopre un incarico nel Consiglio Comunale e nell'unione di Comuni , innovando l'art.82 del T.U.E.L.

Il nodo Consorzi
Ma occorre riflettere anche sui Consorzi.
I Consorzi di funzione (esempio Polizia Municipale / Segretari Comunali) dovrebbero confluire nelle unioni di comuni. Oltre tutto dette funzioni possono essere oggetto di iniziativa comune anche attraverso le convenzioni previste dal T.U.E.L.
Per i Consorzi di servizi la normativa andrebbe rivista nel quadro del DDL sui servizi pubblici degli enti locali (così come con lo stesso andrebbe coordinata la delega di cui alla lettera r) comma 4, art.2) se vogliamo liberalizzare il settore.
Inoltre sulle Città metropolitane, il DDL è una sepoltura senza funerale. Una sepoltura perché affidare all'iniziativa degli enti locali la costituzione delle Città metropolitane, sulla base delle esperienze passate, significa non farne niente. Senza funerale perché la Città Metropolitana delineata del DDL governativo non servirebbe a niente.

Dov’è la novità
Smettiamola di scherzare su questo tema. O la Città Metropolitana rappresenta una vera innovazione o togliamola dalla Costituzione.
Non esiste un ente costituzionale "eventuale" affidato all'iniziativa degli enti locali. Nemmeno il federalista più spinto , se dotata di buon senso , lo crederebbe. Ora il DDL governativo affida ad una serie di soggetti, difficilmente conciliabili tra loro, l'iniziativa.
Inoltre stabilisce come unico soggetto che potrebbe autonomamente promuovere l'iniziativa il Comune Capoluogo, che si troverebbe in posizione egemone in quanto sopravvivrebbe alle Città Metropolitane suddividendosi solo in municipi , ma sostanzialmente restando il "dominus".
Se non si rompe l'unità del Comune Capoluogo, i comuni minori non ci staranno mai. Le competenze poi non possono essere sole quelle delle vecchie Province. Altrimenti dove sarebbe la novità?
Occorre prevedere anche l'attribuzione alla Città Metropolitana delle funzioni normalmente affidate ai comuni quando hanno precipuo carattere sovracomunale, come prevedeva l'art.5 della legge 142.

Circoscrizioni
Il discorso sulla Città Metropolitana e sulle necessarie articolazioni del capoluogo in municipi deve indurre a una riflessione sul problema delle circoscrizioni. Anche con riferimento ai costi della politica.
Oggi abbiamo in Italia 790 circoscrizioni con 12.541 consiglieri.
435 con 5562 consiglieri, sono in comuni sotto i 100.000 abitanti.
Credo vada modificato l'art.17 del T.U.E.L. limitando i consigli di circoscrizione ai comuni con più di 300.000 abitanti (9 comuni) (2468 consiglieri oggi), e fissando un limite massimo per il numero dei consiglieri e un tetto per le indennità.
Sono questi i principali nodi politici che al di là della scelta delle materie da regolare con un intervento legislativo ordinario e di quelle per cui è possibile il ricorso alla delega, debbono , a mio avviso, essere sciolti.
Così come ritengo che comunque ogni decisione su questo provvedimento sarà monca ed inadeguata se non la collegheremo col disegno di legge sul federalismo fiscale.

lunedì 16 luglio 2007

LA POSIZIONE DEL PRI SULL'ORDINAMENTO GIUDIZIARIO
GLI INTERVENTI IN AULA DEL SEN.ANTONIO DEL PENNINO



MERCOLEDÌ 11 LUGLIO 2007
(Antimeridiana)



DEL PENNINO (DCA-PRI-MPA). Signor Presidente, illustrerò gli emendamenti che ho presentato insieme ai colleghi Biondi e Ziccone ma, in particolare, mi vorrei soffermare sull'emendamento che si riferisce alla questione già sollevata dal collega D'Onofrio del numero delle volte nelle quali è possibile il passaggio, nel corso della carriera, tra funzione requirente e funzione giudicante.
Abbiamo apprezzato in discussione generale il limite che era stato introdotto dalla Commissione relativo alla non possibilità di trasferimento in distretti all'interno della stessa Regione ma vediamo che, in relazione agli ultimi diktat dell'Associazione nazionale magistrati, i senatori Formisano e Brutti si sono precipitati a presentare degli emendamenti che correggono e riducono tale previsione.

(Segue DEL PENNINO). Però, anche ammesso che la maggioranza resista su questo punto e che quindi il divieto di esercitare funzioni diverse da quelle precedentemente esercitate nell'ambito del distretto della stessa Regione permanga, la possibilità di modificare quattro volte nell'arco della carriera le proprie funzioni, passando per ben quattro volte dalla requirente alla giudicante o viceversa, annulla di fatto ogni barlume di separazione delle funzioni, che pur si è ritenuto di cercare di introdurre in qualche modo in questo provvedimento.
Allora, noi proponiamo con l'emendamento principale, l'emendamento 2.140, di prevedere una sola volta la possibilità di modificare le funzioni nel corso della carriera; con l'emendamento subordinato, l'emendamento 2.143, arriviamo a due, ma, prevederne quattro, come ha fatto la Commissione, significa obiettivamente dichiarare che tutto quello che è stato scritto sulla diversità tra funzioni giudicanti e funzioni requirenti è una burla e non ha nessuna validità. Significa introdurre un continuo viavai all'interno della carriera di un magistrato tra quelle che sono le due funzioni e, quindi, si vanificherebbe ogni significato della riforma. Per tale ragione confido sulla possibilità di accogliere i nostri emendamenti.
MERCOLEDÌ 11 LUGLIO 2007
(Pomeridiana)
DEL PENNINO (DCA-PRI-MPA). Signor Presidente, contesto anch'io l'interpretazione che ella ha dato dichiarando che sono preclusi tutti gli emendamenti fino al 2.145, perché se lei mette in votazione la parte relativa al «per non più di quattro volte nell'arco dell'intera carriera», lei obiettivamente toglie ogni significato innovativo all'emendamento che viene proposto, che intende sostituire alle parole «per non più di quattro volte nell'arco di una intera carriera» le parole «per non più di una volta nell'arco dell'intera carriera» e così via.
Se lei mette in votazione l'emendamento 2.138 solo per questa parte, lei può dichiarare preclusi gli emendamenti fino a 2.116, ma non può dichiarare preclusi gli emendamenti che sono stati presentati che prevedono di sostituire la formula quattro volte con due volte o con tre volte, perché sono emendamenti di portata modificativa radicalmente diversa.
GIOVEDI' 12 LUGLIO 2007
(pomeridiana)
DEL PENNINO (DCA-PRI-MPA). Signor Presidente, annuncio il voto contrario dei senatori del Gruppo Democrazia Cristiana per le autonomie-Partito Repubblicano Italiano-Movimento per l'Autonomia su questo emendamento che il Governo ha presentato per soddisfare le richieste del ministro Di Pietro e far rientrare la dissidenza dei senatori dell'Italia dei Valori (ammesso che questa dissidenza sia rientrata dopo le dichiarazioni di stamattina del senatore Formisano).
Il voto è contrario perché con l'emendamento 2.134 (testo 3) si dà il colpo definitivo alla possibilità di un'effettiva separazione delle funzioni. Già con la norma - che non avete voluto modificare - che consentiva il passaggio da funzione requirente a giudicante per quattro volte nella carriera, si era posta una pietra sulla possibilità di separazione delle funzioni che pure era contenuta anche nel programma dell'Unione. Con questo emendamento si pone la pietra tombale, perché è evidente che si annulla anche quella modifica che era stata introdotta, rispetto all'ordinamento attuale, da parte della Commissione, che vietava il trasferimento da una funzione all'altra all'interno dello stesso distretto.
Ma qui siamo in presenza, signor Presidente, non solo di un atto che vanifica l'obiettivo della separazione delle funzioni, ma di un autentico caso di schizofrenia legislativa, perché all'articolo 10 del decreto legislativo n. 160 del 2006 abbiamo suddiviso le funzioni in funzioni giudicanti di primo grado, di secondo grado, di legittimità e così via. Con questo emendamento si introduce un'ulteriore differenziazione delle funzioni, perché si parla di funzioni esclusivamente civili o del lavoro e di funzioni penali.
Allora, dovete tenere una coerenza tra ciò che avete previsto nel citato articolo 10 - in cui non si fa distinzione tra funzioni civili e penali - e ciò che invece introducete con questo emendamento, modificando sostanzialmente la previsione normativa su cui già ci eravamo pronunciati. Queste sono le ragioni per cui voteremo contro l'emendamento 2.134 (testo 3).
DISCORSO ORDINAMENTO GIUDIZIARIO
di Sen. Antonio Del Pennino

Il DDL nel testo approvato dalla Commissione che viene oggi al nostro esame rappresenta certo un miglioramento rispetto all’originario disegno di legge governativo.
E non possiamo non sottolineare positivamente il fatto che rispetto ai diktat della A.N.M., a cui il governo con le sue proposte emendative aveva ceduto, i colleghi che compongono la Commissione, sia di maggioranza che di opposizione, abbiano saputo resistere.
E di questo diamo lealmente atto in particolare al relatore Di Lello.
Ma questo non ci induce ad un giudizio positivo sul testo che stiamo discutendo.
Non tanto e non solo perché vi sono alcune norme che destano motivi di perplessità, ma per una più generale considerazione sulla forma e sui modi con cui si è affrontato e si affronta il problema dell’ordinamento giudiziario e quello più generale della collocazione della magistratura nel nostro quadro costituzionale.
Mi soffermerò innanzitutto su una questione che più direttamente inerisce al provvedimento al nostro esame.
L’attuale testo prevede la possibilità di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa per ben quattro volte nel corso della carriera; si tratta evidentemente di una soluzione che pregiudica la possibilità di distinguere il ruolo e la funzione del pubblico ministero da quella del giudice, come invece esigerebbe il dettato cosituzionale (art. 111 Cost.) che esplicitamente prevede che il Giudice sia terzo e imparziale.

Consentire il tramutamento delle funzioni per ben quattro volte nel corso della carriera di un magistrato equivale ad annacquare il timido barlume di separazione di funzioni, posto che già oggi, mediamente, un magistrato passa da una funzione all’altra due o tre volte nell’arco della propria carriera
Sequesta previsione legislativa non è accettabile (e in merito ho presentato delle proposte emendative),va invece apprezzata la norma che stabilisce che non solo giudici e pubblici ministeri ordinari debbano cambiare distretto al momento del passaggio di funzione (come faceva l’originario testo governativo), ma che tale obbligo sia esteso a tutti i magistrati (anche ai Presidenti di Tribunale e ai Procuratori della Repubblica) e che i magistrati che lavorano nelle cinque regioni che hanno più di un distretto di Corte d’Appello (Lombardia, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) debbano uscire dalla regione per cambiare funzione.
Ma al di là di questo aspetto si pone il problema di una più generale riflessione su come debba essere risolto il problema di un migliore funzionamento del nostro sistema giudiziario.
Ho già avuto occasione di affermare nel corso del dibattito sulla riforma dell’ordinamento giudiziario presentato nella scorsa legislatura dall’allora Ministro Castelli che, “il nostro sistema giustizia è caratterizzato da due diversi mali: da un lato, la condizione di conflittualità dell’ordine giudiziario con gli altri poteri dello Stato, dall’altro una ormai congenita inefficenza, specie nel settore del contenzioso civile”.
E come pertanto vi sia bisogno, non solo di un intervento del legislatore ordinario, ma anche di una revisione costituzionale.
Sul primo punto, relativo alla separatezza, confinante con l’ostilità, che la magistratura associata ha assunto rispetto al potere politico.
Se separatezza volesse dire rivendicazione della propria autonomia (e in particolare autonomia del singolo giudice) nulla “quaestio”.
Ma se la separatezza confina con l’ostilità, in nome di un presunto primato morale, questo esce dal quadro costituzionale.
E qui si pone il delicato problema dell’autogoverno della magistratura e della revisione costituzionale delle norme, che questo DDL ordinario non può toccare, sulla composizione del CSM.
E’ un tema che fu oggetto di scontro già alla Costituente, quando, in contraddittorio con la tesi del’On. Scalfaro, che poi prevalse, l’On. Togliatti e l’On. Laconi sostenevano che il CSM avrebbe dovuto essere: “un organismo il quale assume una funzione particolare di antidoto alla completa autonomia del potere giudiziario come tale”. Il che portava a ritenere il fatto che il Consiglio Superiore fosse formato per metà da magistrati e per metà da membri eletti dall’Assemblea Nazionale: un elemento – secondo Togliatti - che accresceva, non diminuiva, il prestigio della magistratura.
Dicendo questo non voglio sposare la tesi che in allora sosteneva la sinistra, ma credo si debba riflettere, per superare la separatezza, sull’ipotesi di un CSM modellato su uno schema analogo alla Corte Costituzionale, (1/3,1/3, 1/3) da tempo ipotizzato dal collega Maccanico.
Il secondo punto che si pone – dicevo - è quello relativo all’effiecenza del sistema giustizia che ha particolari riflessi sulla giustizia civile.
In questo senso bisogna innanzitutto pensare all’introduzione di un 2° comma all’art.97 della Costituzione prevedendo che il Primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di Cassazione, i Presidenti e i Procuratori Generali presso le Corti d’Appello, i Presidenti e i Procuratori della Repubblica presso i Tribunali ordinari, assicurino, ciascuno nel proprio ambito di competenza, l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia secondo i criteri di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione.
In secondo luogo, ed è una provocazione che lancio, bisognerebbe forse anche riflettere sull’ipotesi di soluzioni diverse, tramite l’elezione popolare per le designazioni dei responsabili della Corti d’Appello., dei Tribunali e delle Procure.

Onorevoli colleghi, le considerazioni che ho esposto sono solo alcune sollecitazioni per una più approfondita riflesione sui problemi complessi del nostro ordinamento giudiziario che vanno al di là del merito del provvedimento in esame, ma sono opportune se vogliamo aprire una stagione di riforme più incisive.

martedì 10 luglio 2007

Nucara ricorda Corso Libero Bovio
Il segretario del Pri Francesco Nucara si è unito al lutto per la scomparsa del famoso penalista Corso Libero Bovio il quale, dal 2003, aveva avviato un'intensa collaborazione con l'organo ufficiale del Pri, la "Voce Repubblicana". "Voglio ricordare - ha dichiarato Nucara - come l'avvocato Corso Libero Bovio fosse discendente di uno dei più illustri repubblicani storici, Giovanni Bovio. E la stessa passione agli ideali fondanti del repubblicanesimo si intravedeva negli articoli che inviava con regolarità all'organo ufficiale del Pri, da me attualmente diretto – ha conclso Nucara - Voglio esprimere alla famiglia le mie più sentite condoglianze per una così grave scomparsa".
Destra e sinistra
Categorie ormai erose dalla storia: scegliere fra liberalismo e socialismo
Riscoprire nell'Eldr la vera ispirazione dell'Edera


di Franco De Angelis*

Il dibattito sul senso della distinzione destra-sinistra lanciato da Italico Santoro su questo giornale ha riscosso, a giusta ragione, notevole interesse e fatto emergere spunti preziosi. La maggior parte degli amici che mi hanno preceduto ha, con modalità diverse, messo in rilievo un dato innegabile: a fronte di un panorama politico sempre più complesso e sfaccettato, oggi la tradizionale divisione tra destra e sinistra ha sempre meno senso. Identificare la destra con la conservazione e la sinistra con il progresso significa poco: anche perché, tanto per cominciare, bisognerebbe vedere che tipo di istituzioni, quale orientamento politico si vuole conservare o mutare. E si tratta di un esercizio che può avere esiti paradossali e faceti: tra Breznev e Gorbaciov, chi era di destra e chi di sinistra? E fra Margaret Thatcher e Harold Wilson?
Naturalmente, c'è chi considera Breznev (come del resto Stalin) di destra, ma francamente mi sembra un po' forzato. Insomma, situare la frontiera destra-sinistra sulla linea che separa la continuità dalla discontinuità è sicuramente fuorviante. Del resto, forse non è male ricordare che le definizioni di "destra" e "sinistra" nascono, addirittura, con gli Stati Generali del 1789, alla vigilia della Rivoluzione Francese. Tempi piuttosto remoti, che ben poco hanno a che vedere con i nostri. Peraltro, personalmente non credo che il tramonto delle nozioni di "destra" e "sinistra", che ormai darei per assodato, comporti automaticamente una rinuncia alla politica.
La tentazione di legittimare i governi, o addirittura i regimi, con considerazioni puramente tecniche è più antica di quanto non si pensi. In un interessante saggio, Giuseppe Galasso fa risalire questa scelta addirittura all'Impero napoleonico: un'esperienza politica che, non a caso, segnava una forte discontinuità sia rispetto al passato prossimo (la Rivoluzione), sia rispetto a quello più remoto (il Regno di Francia). Secondo Galasso, Napoleone fu il primo governante a scegliere di legittimarsi con l'efficacità. In altre parole, l'imperatore non pretendeva di essere stato scelto da Dio, come i re di Francia, né dal popolo, come i leader della Rivoluzione: semplicemente, giustificava la sua permanenza al potere con la capacità di sapere ciò che occorreva fare per il bene del paese, e di farlo senza preoccuparsi delle ideologie, in maniera, per così dire, neutrale. Insomma, Napoleone si presentava come il primo "governo tecnico" della storia.
Ma è davvero possibile governare in modo neutrale? È davvero possibile gestire la cosa pubblica in base a indici puramente tecnici? Secondo me, no. E penso che tutte le persone che seguono questo giornale saranno d'accordo. Non esiste mai un unico modo per raggiungere un risultato. Del resto, vediamo tutti i giorni che persino le aziende - che in fondo perseguono obiettivi semplici, definiti e quantificabili - adottano strategie differenti. Anzi, per usare il termine più in voga nel mondo del marketing, seguono politiche differenti. Alla fine, quindi, questa parola tanto demonizzata di questi tempi esce dalla porta per rientrare dalla finestra. Perché? Molto semplicemente, perché la politica - intesa non come semplice gestione del day by day, ma come capacità di individuare e perseguire grandi disegni - rappresenta una dimensione irrinunciabile dell'essere umano. E fingere che non esista significa mentire, più o meno scientemente, a noi stessi. Anche l'antipolitica è un modo di fare politica.
Ciò detto, torniamo al problema di fondo. Posto che la politica esiste, posto che le ideologie, in quanto visioni del mondo, esistono, è necessario distinguerle. Se non altro, per capirci. Destra e sinistra, siamo tutti d'accordo, sono termini ormai privi di significato. Tony Blair era di sinistra. Nicolas Sarkozy, che si prefigge obiettivi molto simili ai suoi, è di destra. È chiaro che una discussione impostata su queste basi non ci porterà a nulla. Esiste però un'altra distinzione, a mio avviso molto più fondata, che possiamo considerare ancora attuale: la distinzione fra le due grandi famiglie politiche del XIX e del XX secolo, il liberalismo e il socialismo.
Contrariamente alla destra e alla sinistra, questa non è una catalogazione futile o vaga. Siamo di fronte a idee ben strutturate e consolidate, basate sul pensiero di grandi filosofi e che nel corso del tempo sono state oggetto di analisi profonde. Ma, soprattutto, parliamo di ideologie (nel senso nobile e non settario del termine) tra loro alternative, che presuppongono due differenti visioni dell'uomo e della società. Naturalmente, ognuna delle due grandi famiglie si è ramificata, a volte in modo imprevisto e spesso un po' aberrante. Dal socialismo sono discesi lo stalinismo, il maoismo e i Khmer rossi (ma anche, non dimentichiamolo, la socialdemocrazia scandinava). Il liberalismo ha avuto derive meno sanguinose, ma non per questo meno devianti: valga l'esempio dei teocon o degli anarco-capitalisti americani.
Qual è lo spartiacque tra queste due grandi concezioni del mondo? Senza pretendere di affermare qualcosa di nuovo, credo che la differenza fondamentale consista nel diverso modo d'intendere il ruolo dello stato.
Per i socialisti, a qualunque sottofamiglia appartengano, lo stato ha e deve avere un ruolo centrale e interventista. Tutto, dall'economia all'educazione, dalla cultura alla previdenza, deve passare dall'apparato statale, e preferibilmente essere gestito direttamente dallo stato. Per i liberali, la questione si pone in termini opposti. Lo stato deve avere fondamentalmente il compito di garantire i diritti fondamentali del cittadino assicurando che la libertà di tutti sia rispettata. In questo ambito può ovviamente esercitare un ruolo correttivo nei confronti delle dinamiche sociali ritenute incompatibili con i diritti generali - pensiamo alle politiche antidiscriminatorie, o agli interventi tesi a garantire la concorrenza - ma idealmente non dovrebbe mai sovrapporsi alla società civile.
Se assumiamo come vero, nella sua forzata schematicità, questo punto di partenza, credo che noi repubblicani non avremo incertezze su come collocarci, né sulle scelte di campo che dobbiamo e dovremo compiere.
L'adesione all'eurogruppo ELDR, in questo contesto, assume un valore che va al di là delle scelte parlamentari e che ci permette di riallacciarci alle nostre radici più profonde. Mantenere un profilo autenticamente liberale in un contesto politico come l'attuale non è facile. Ma questa è la sfida che ci compete, e che ci caratterizza come punto di riferimento di un'area d'opinione che, pur tra mille incertezze e contraddizioni, si va lentamente ricomponendo.


Franco De Angelis - Consigliere PRI - Milano
* Consigliere comunale Pri, Milano
DEL PENNINO: SUL TESTAMENTO BIOLOGICO SI RISCHIANO TEMPI BIBLICI

In seguito alla discussione sui disegni di legge relativi al Testamento biologico, svoltasi martedì 12 giugno in Commissione Igiene e Sanità del Senato, il senatore Antonio Del Pennino, a nome del PRI, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
"La procedura scelta di dare corso ad una discussione generale sull'insieme dei disegni di legge relativi al testamento biologico anziché su un testo base o su un testo presentato dalla relatrice, rischia di far adottare tempi biblici nell'esame di questo provvedimento.
Questa procedura è frutto dei contrasti interni alla maggioranza che non riesce a trovare un accordo sui punti più controversi come quelli relativi all'idratazione e all'alimentazione artificiale e all'obiezione di coscienza, dopo l'ultimatum della senatrice Binetti.
È necessario che nelle prossime sedute si cambi registro.
Occorre che la relatrice presenti un testo base su cui sia possibile la discussione e la presentazione degli emendamenti, se non si vuole "affossare" il provvedimento.
In proposito desidero avanzare un suggerimento: sarebbe opportuno che la relatrice riproponesse il testo approvato all'unanimità dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato nel corso della passata legislatura. Su quel testo ci fu un consenso bipartisan e credo sarebbe difficile per tutti proporre oggi emendamenti che lo stravolgessero".