lunedì 10 dicembre 2007

INTERVENTI DEL SENATORE ANTONIO DEL PENNINO IN SENATO SUL DECRETO LEGGE RELATIVO ALLONTANAMENTO DAL TERRITORIO NAZIONALE DI CITTADINI COMUNITARI PER ESIGENZE DI PUBBLICA SICUREZZA.
Signor Presidente, illustrerò l'ordine del giorno G101, da me presentato, che tende ad indicare una soluzione che può contribuire a risolvere, sia pure parzialmente, il grave problema del sovraffollamento delle carceri italiane. Sappiamo tutti come questo fenomeno dipenda in modo consistente dalla presenza di detenuti di nazionalità straniera, prevalentemente extracomunitari.
Nei confronti di questi ultimi, in base all'articolo 15 del decreto legislativo n. 286 del 1998, è previsto che l'esecuzione dell'espulsione avvenga solo subito dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o di detenzione. È pur vero che il successivo articolo 16 dello stesso decreto legislativo prevede che il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per una reato non colposo o nell'applicare la pena su richiesta delle parti, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, nei confronti di uno straniero rispetto al quale ricorrano gli estremi di espulsione amministrativa, quando ritiene di dover applicare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrano le condizioni per ordinarne la sospensione condizionale, può sostituire la medesima pena con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni. Ma la seconda previsione interessa sicuramente una quota marginale rispetto ai condannati ad una pena detentiva superiore. E queste norme riguardano solo, come dicevo, gli extracomunitari.
Per quanto riguarda, invece, i cittadini comunitari, il decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, nulla dice in proposito. Ma è evidente che anche in questo caso, per i princìpi generali, vale il criterio della preventiva espiazione della pena rispetto al provvedimento di espulsione. Al massimo si potrebbe ipotizzare una procedura quale quella delineata dall'articolo 16 del decreto legislativo n. 286, in ragione della previsione contenuta nell'articolo 31 della direttiva comunitaria, che prevede l'immediata espulsione qualora il provvedimento di allontanamento si basi su una precedente decisione giudiziale. Ma si tratta di un'ipotesi interpretativa, nulla di più. Inoltre, la norma non è stata recepita nel citato decreto legislativo n. 30 di attuazione della direttiva, né ripresa del decreto oggi al nostro esame.
Siamo, quindi, in presenza di una materia per la quale appare opportuna una più completa ridefinizione normativa, sulla base di appositi accordi di carattere internazionale. Mentre per quanto riguarda i Paesi extracomunitari la possibilità di giungere a convenzioni, che prevedono l'ipotesi che il cittadino condannato in Italia venga espulso ed espii la pena nel Paese d'origine, appare francamente remota e richiederebbe comunque una molteplicità di accordi bilaterali, diversa invece è la situazione per quanto riguarda i cittadini comunitari.
In questi casi appare possibile ipotizzare una convenzione in sede europea che stabilisca che il cittadino comunitario, condannato per fatti previsti come reati nel Paese ospitante, qualora gli stessi fatti siano considerati reati anche dalla legislazione del Paese d'origine, possa esser espulso dal Paese ospitante ed il Paese d'origine garantisca l'espiazione della pena nei suoi istituti penitenziari, salva la possibilità ovviamente di ricorrere avverso la sentenza, se non definitiva, del Paese che l'ha emessa presso gli alti gradi di giudizio dello stesso, magari usando lo strumento della teleconferenza, ormai ampiamente utilizzato nei procedimenti giudiziari.
Si tratterebbe di una soluzione estremamente auspicabile, che rafforzerebbe la collaborazione giudiziaria nei Paesi dell'Unione; renderebbe più facile il recupero del reo e, per quanto riguarda il nostro Paese, servirebbe anche, se in misura ridotta, ad alleggerire il sovraffollamento delle carceri. Questo è il senso dell'ordine del giorno presentato per impegnare il Governo a farsi promotore a livello europeo di una convenzione di questo tipo.
GIOVEDI' 29 NOVEMBRE 2007
Signor Presidente, desidero fare una dichiarazione molto pacata e serena su questo subemendamento partendo dalla lettura dell'articolo 5, comma 5, della direttiva 2004/38/CE, cui si ispirano sia l'emendamento del Governo, sia il subemendamento del collega Schifani ed di altri senatori. L'articolo 5, comma 5, di quella direttiva stabilisce che: «Lo Stato membro può prescrivere all'interessato di dichiarare la propria presenza»; quindi la facoltà è contenuta nella direttiva. Tuttavia, tale norma dà una facoltà di prescrivere un obbligo e non un'altra facoltà: questo è il punto centrale. Ecco perché il termine «può» a mio avviso deve essere sostituito dal termine «deve», come propone il subemendamento 1.300/3 (testo 2).
Tuttavia, vi è di più, in quanto dall'emendamento del Governo deriva una sanzione indiretta, sia pure non di particolare rilevanza, cioè che in assenza di una dichiarazione di presenza, si presume che la presenza decorra già da tre mesi. Pertanto, se diamo una facoltà e non prevediamo un obbligo di fare tale dichiarazione, non aiutiamo il cittadino comunitario, lo mettiamo in una condizione di maggior confusione e debolezza; infatti, poiché egli non sa di dover fare questa dichiarazione, ma sa genericamente che la può fare, è molto più difficile che la faccia e che quindi abbia un titolo... (Il microfono si disattiva automaticamente).
MERCOLEDI' 5 DICEMBRE 2007
Signor Presidente, Colleghi Senatori,
si è arrivati al voto finale sul disegno di legge di conversione del decreto relativo all'allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica sicurezza di cittadini comunitari in un clima diverso da quello che i repubblicani si erano augurati.
Non cioè a conclusione di un positivo confronto tra maggioranza e opposizione su un tema che, come ci ha ricordato anche ieri il Capo dello Stato, richiederebbe condivisione e non conflittualità, ma a seguito di un irrigidimento della maggioranza che, con la reiezione prima di quasi tutti gli emendamenti dell'opposizione e il ricorso poi da parte del Governo al voto di fiducia su un emendamento relativo alle parti più qualificanti del testo, ha interrotto ogni possibilità di dialogo.

A questo si è giunti sotto le pressioni della sinistra antagonista che sostiene l'attuale esecutivo , che non ha consentito quelle correzioni che sarebbero state necessarie per rendere il provvedimento realmente efficace.
E non era già di per sé compito semplice, perché i margini entro cui dovevamo muoverci erano abbastanza ristretti in quanto non potevamo distaccarci dalle prescrizioni contenute nella direttiva europea che era stata redatta con l'obiettivo di tutelare il cittadino comunitario dalle eventuali restrizioni di Stati membri dell'Unione rispetto al suo diritto di libera circolazione , e ha quindi natura squisitamente garantista e non ha previsto il diffondersi del fenomeno, verificatosi con l'allargamento dell'unione, di cittadini provenienti da altri paesi europei che si trasferivano per porsi ai margini della vita sociale del paese ospite e delinquere, dopo averlo magari già fatto nei paesi di origine.
La situazione di costoro , pur non essendo contemplata al momento dell'emanazione della direttiva, trovava però una possibilità di controllo al comma 5 dell'articolo 5 della stessa che prevede , a proposito del diritto di ingresso, che lo stato membro può prescrivere all'interessato di dichiarare la propria presenza sul territorio nazionale in un termine ragionevole non discriminatorio e prevedere proporzionate sanzioni.
Ora il disegno di legge che ci accingiamo a votare non prevede né questa prescrizione né il termine, prevede solo la facoltà del cittadino comunitario di dichiarare il suo ingresso nel paese ospite, vanificando quindi ogni effettiva possibilità di controllo.
Ma il punto più delicato e irrisolto resta un altro: quello delle forme attraverso le quali si dà corso al provvedimento di espulsione .
E' una annosa questione che si pose già, a proposito dei cittadini extracomunitari, in occasione del decreto Martelli del '90.
L'esperienza di questi anni ci ha insegnato che l'espulsione attraverso intimazione senza accompagnamento alla frontiera resta una grida manzoniana .
Ora il decreto di cui stiamo discutendo la conversione, al pari dell'emendamento su cui il governo ha posto la fiducia, dà una definizione limitativa dei motivi imperativi di pubblica sicurezza che, in base alla direttiva, possono consentire l'espulsione immediata .
Prova ne è il fatto che i dati del Ministero dell'Interno ci dicono che nella vigenza dello stesso decreto, su 177 provvedimenti di espulsione decisi dopo la sua entrata in vigore, solo 78 sono stati eseguiti per motivi imperativi, e quindi con accompagnamento alla frontiera .
Dopo l'efferato omicidio di Giovanna Reggiani, su pressione dell'onorevole Veltroni, il Governo si era deciso a ricorrere a un decreto , presentandolo come uno strumento che aveva valore non solo repressivo ma anche preventivo, per il suo carattere di deterrenza .
Temiamo che, per la debolezza del suo impianto, il provvedimento che ci accingiamo a votare, quando ne saranno a tutti evidenti i contenuti, non solo si rivelerà strumento di dubbia efficacia per gli allontanamenti dal territorio nazionale, ma non avrà nemmeno effetto di dissuasione rispetto a coloro che sono venuti nel nostro Paese non per integrarsi e lavorare, ma con tutti altri obiettivi.
Non è una logica ciecamente repressiva quella che non ci consente di votare questo provvedimento, ma la preoccupazione che, se alle declamazioni seguiranno dimostrazioni di impotenza rispetto al fenomeno dell'immigrazione irregolare, lo stesso sia destinato ad aggravarsi.

GIOVEDI' 6 DICEMBRE 2007

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