lunedì 16 luglio 2007

DISCORSO ORDINAMENTO GIUDIZIARIO
di Sen. Antonio Del Pennino

Il DDL nel testo approvato dalla Commissione che viene oggi al nostro esame rappresenta certo un miglioramento rispetto all’originario disegno di legge governativo.
E non possiamo non sottolineare positivamente il fatto che rispetto ai diktat della A.N.M., a cui il governo con le sue proposte emendative aveva ceduto, i colleghi che compongono la Commissione, sia di maggioranza che di opposizione, abbiano saputo resistere.
E di questo diamo lealmente atto in particolare al relatore Di Lello.
Ma questo non ci induce ad un giudizio positivo sul testo che stiamo discutendo.
Non tanto e non solo perché vi sono alcune norme che destano motivi di perplessità, ma per una più generale considerazione sulla forma e sui modi con cui si è affrontato e si affronta il problema dell’ordinamento giudiziario e quello più generale della collocazione della magistratura nel nostro quadro costituzionale.
Mi soffermerò innanzitutto su una questione che più direttamente inerisce al provvedimento al nostro esame.
L’attuale testo prevede la possibilità di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa per ben quattro volte nel corso della carriera; si tratta evidentemente di una soluzione che pregiudica la possibilità di distinguere il ruolo e la funzione del pubblico ministero da quella del giudice, come invece esigerebbe il dettato cosituzionale (art. 111 Cost.) che esplicitamente prevede che il Giudice sia terzo e imparziale.

Consentire il tramutamento delle funzioni per ben quattro volte nel corso della carriera di un magistrato equivale ad annacquare il timido barlume di separazione di funzioni, posto che già oggi, mediamente, un magistrato passa da una funzione all’altra due o tre volte nell’arco della propria carriera
Sequesta previsione legislativa non è accettabile (e in merito ho presentato delle proposte emendative),va invece apprezzata la norma che stabilisce che non solo giudici e pubblici ministeri ordinari debbano cambiare distretto al momento del passaggio di funzione (come faceva l’originario testo governativo), ma che tale obbligo sia esteso a tutti i magistrati (anche ai Presidenti di Tribunale e ai Procuratori della Repubblica) e che i magistrati che lavorano nelle cinque regioni che hanno più di un distretto di Corte d’Appello (Lombardia, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) debbano uscire dalla regione per cambiare funzione.
Ma al di là di questo aspetto si pone il problema di una più generale riflessione su come debba essere risolto il problema di un migliore funzionamento del nostro sistema giudiziario.
Ho già avuto occasione di affermare nel corso del dibattito sulla riforma dell’ordinamento giudiziario presentato nella scorsa legislatura dall’allora Ministro Castelli che, “il nostro sistema giustizia è caratterizzato da due diversi mali: da un lato, la condizione di conflittualità dell’ordine giudiziario con gli altri poteri dello Stato, dall’altro una ormai congenita inefficenza, specie nel settore del contenzioso civile”.
E come pertanto vi sia bisogno, non solo di un intervento del legislatore ordinario, ma anche di una revisione costituzionale.
Sul primo punto, relativo alla separatezza, confinante con l’ostilità, che la magistratura associata ha assunto rispetto al potere politico.
Se separatezza volesse dire rivendicazione della propria autonomia (e in particolare autonomia del singolo giudice) nulla “quaestio”.
Ma se la separatezza confina con l’ostilità, in nome di un presunto primato morale, questo esce dal quadro costituzionale.
E qui si pone il delicato problema dell’autogoverno della magistratura e della revisione costituzionale delle norme, che questo DDL ordinario non può toccare, sulla composizione del CSM.
E’ un tema che fu oggetto di scontro già alla Costituente, quando, in contraddittorio con la tesi del’On. Scalfaro, che poi prevalse, l’On. Togliatti e l’On. Laconi sostenevano che il CSM avrebbe dovuto essere: “un organismo il quale assume una funzione particolare di antidoto alla completa autonomia del potere giudiziario come tale”. Il che portava a ritenere il fatto che il Consiglio Superiore fosse formato per metà da magistrati e per metà da membri eletti dall’Assemblea Nazionale: un elemento – secondo Togliatti - che accresceva, non diminuiva, il prestigio della magistratura.
Dicendo questo non voglio sposare la tesi che in allora sosteneva la sinistra, ma credo si debba riflettere, per superare la separatezza, sull’ipotesi di un CSM modellato su uno schema analogo alla Corte Costituzionale, (1/3,1/3, 1/3) da tempo ipotizzato dal collega Maccanico.
Il secondo punto che si pone – dicevo - è quello relativo all’effiecenza del sistema giustizia che ha particolari riflessi sulla giustizia civile.
In questo senso bisogna innanzitutto pensare all’introduzione di un 2° comma all’art.97 della Costituzione prevedendo che il Primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di Cassazione, i Presidenti e i Procuratori Generali presso le Corti d’Appello, i Presidenti e i Procuratori della Repubblica presso i Tribunali ordinari, assicurino, ciascuno nel proprio ambito di competenza, l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia secondo i criteri di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione.
In secondo luogo, ed è una provocazione che lancio, bisognerebbe forse anche riflettere sull’ipotesi di soluzioni diverse, tramite l’elezione popolare per le designazioni dei responsabili della Corti d’Appello., dei Tribunali e delle Procure.

Onorevoli colleghi, le considerazioni che ho esposto sono solo alcune sollecitazioni per una più approfondita riflesione sui problemi complessi del nostro ordinamento giudiziario che vanno al di là del merito del provvedimento in esame, ma sono opportune se vogliamo aprire una stagione di riforme più incisive.

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